L’UOMO
A VAPORE
di
Erri De Luca
L’uomo
del turno di notte, in divisa, al neon di un ufficio che dà
sul primo binario è un capostazione, non viaggia, sta.
E’ una notte d’inverno, la nebbia surgelata assedia
Cuneo.
Rari dispersi vanno a moscacieca, uno riempito a vino, uno spaesato
che ha mancato i treni. A sbirciare dentro la stanza pallida
vedono un ferroviere di sentinella al traffico notturno dei
convogli. Registra nomi e numeri di locomotive mentre passano
sfondando il banco della nebbia. L’acciaio delle ruote
sul liscio del binario stride sotto il morso dei freni, l’attrito
fa schizzare qualche scintilla fredda.
Nella stanza, appoggiato a una sedia c’è un attrezzo
che spiazza l’arredo. Da fuori l’ubriaco strizza
gli occhi, la miopia del vino, rinuncia, sa d’intendere
male e di essere frainteso. Lo spaesato mette meglio a fuoco;
è una chitarra.
Si capisce quando il ferroviere se la mette in braccio.
Buffo strumento una chitarra: vuole polpastrelli a stringerle
le corde e altre dita che le diano pizzichi, manca solo che
chieda di essere baciata per suonare.
Ma sì, è baciata, il ferroviere spiccica dalle
dita una melodia e ci mette sopra la voce come il fiato di un
bacio. Canta sommesso, stringe, come la nebbia fa col suo paese.
La voce avvolge la chitarra, porta la canzone. Chi è
locomotiva e chi vagone tra la chitarra e il canto? Un verso
di Yeats chiede: “How can we know the dancer from the
dance?”: come possiamo noi distinguere il danzatore dalla
danza? E però dobbiamo, perché la danza è
nebbia e il danzatore il luogo sul quale essa si posa. Perché
così fa il canto sopra la chitarra.
In mille
e una notte come questa Gian Maria Testa ha scritto le canzoni
da spargere, da sporgere, in altre mille sere di concerti in
cortili e palazzi della musica. Le sue canzoni vengono dai turni
di notte, sono piene di veglie sopra il sonno degli altri, sono
della stessa materia del sonno perduto, in sostituzione dei
sogni.
Chi è stato nei turni di notte, chi ha avuto salario
pagato dall’obbligo d’insonnia, si appoggia con
più forza sopra il gomito mentre le ascolta. C’è
tra di noi questo vuoto di sonno a fondamento. La sua voce ha
l’aria di arrivare da lontano e cantare soltanto per potere
ascoltare una voce, per azzittire quelle che si affollano nella
testa dei momenti folli e azzittiscono tutti. Ci sono notti
che sono canti, crolli, come un pendio di neve sotto una valanga.
La
voce di Gian Maria si è allenata a salire di forza e
di volume fino a farsi sentire in piena frenata di un treno,
poi si è esercitata ad abbassarsi fino alla soglia di
soffio, per non sffocare la prima luce, annunciazione di turno
finito.
La sua voce ha una forza compressa che lui rilascia a sorsi,
ha l’apnea del sommozzatore che ha scorta di ossigeno.
Fa dimenticare che l’aria è a maggioranza azoto.
Lo ascolto, qualche volta pure canto insieme, cercando il punto
in cui riaffiora a respirare, non lo trovo. E’ un uomo
a vapore Gian Maria Testa, una locomotiva d’altro secolo,
viene da un coro che si è sbriciolato e l’ha lasciato
solo a continuare.
Canta la fermezza del disertore di Boris Vian da soldato di
guerre perdute, perché i soldati le perdono tutte. Canta
mongolfiere, carezze, migratori, chisciotti, uomini e donne
al riparo improvviso di un amore, canta pure quando solo parla,
legge una pagina che gli è stata cara.
Esiste una musica odierna ultraleggera, più dell’aria,
come i gas inerti coi quali si gonfiano palloncini. E poi esiste
una musica che dà peso al vento e gli fa riempire le
chiome degli alberi e delle donne. Gian Maria fa questa.